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 Ricordi e nostalgia

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Il grido improvviso di un ombrellaio suscita l’ondata dei ricordi.

Più che ricordi sono addirittura emozioni quelle che ti si radicano dentro nell’infanzia e dalle quali non ti stacchi più. L’ombrellaio e la sua voce che si insinua nelle case sono la coscienza della nostalgia.

Il passato si fa presente, riemerge dalle ombre, riprende corpo, e mille sensazioni, mille riflessioni affiorano.

Tempo di guerra: sulle strade deserte, anche lungo i contorni dei laghi di Como e Maggiore le auto erano rarissime.

Di paese in paese trascinava il suo piccolo carrettino il merciaio. Arrivava in piazza e alzava le tendine del negozio ambulante. Le massaie comperavano le piccole cose di ogni giorno: l’ago, il filo, il ditale, la matassa di lana, le forbici. Il merciaio era il simbolo di una piccola civiltà contadina, legata ancora al risparmio, agli abiti rivoltati mille volte e infine trasformati in abiti per i ragazzi, alle scarpe continuamente risuolate, ai mezzi guanti di lana per proteggere le mani, in casa, dal freddo dell’inverno, alle pallottole di carta essiccate per la stufa, alle macchine per cucire, agli scaldini piatti che i ragazzi portavano a scuola per illudersi di avere un poco di calore.

Un altro carretto, trainato da cani: stasera , nella piccola piazza, ci sarà spettacolo. L’ometto paziente, che portava la sua truppe di animali attraverso il piccolo mondo di paesi tutti uguali, dove sarà? Aveva la pazienza del povero. Di giorno si fermava su uno spiazzo, di fronte a panorami incantevoli, a sbocconcellare tozzi di pane nero ed a ripetere in continuazione, con gli animali, gli esercizi. Il cane che salta nel cerchio, quello che si alza sulle zampe, come una ballerina, la scimmietta che scarta veloce le carte delle caramelle e si inerpica sul filo. Finito lo spettacolo, raccolti i pochi centesimi finiti nel cappellaccio, viaggia verso la notte, verso un angolo dove potersi distendere nel carretto, tra gli animali. La fatica della vita.

Ed ecco, in città questa volta, un suono grave di tromba: il carretto del ghiaccio arrivava puntuale, una mattina si ed una no. I gesti erano sempre quelli, quasi un rituale: suono di tromba, finestre che si aprono, “A me una stecca”, “Due a me”. L’uomo del ghiaccio prendeva il rampone per tirare a se la stecca di ghiaccio, poi la appoggiava sulla spalla, protetta da un sacco. Nelle case si apriva lo sportello in legno delle ghiacciaie foderate di zinco e la stecca di ghiaccio cominciava, lentamente, a consumarsi.

E il venditore di castagnaccio? E la donna delle caldarroste? E il lattaio con i suoi misurini? E il droghiere con le palette incurvate? E l’odore delle botteghe? E l’artigiano che percorreva gran parte della Lombardia a riparare le sedie? E le donnine che, scese dalla montagna, passavano di porta in porta a vendere il burro e le uova, fresche.

Un popolo, di figurine minute, che è stato cancellato quasi di colpo. Un mondo che è finito, del quale serbiamo tenui memorie, riemergenti solo per lo stimolo improvviso creato da una voce, un suono, un odore.

Certo, ci sono anche i giovani i quali non sanno la misura di un’esistenza piccola, angusta, povera.

Forse tutto questo scritto di riscoperta, di implicito confronto, andrebbe rivolto a loro, non solo a noi delle generazioni che stanno tramontando e che ogni tanto cedono al gusto di comperare temperamatite fatti in Cina solo perché riproducono la stadera, il vecchio telefono, il macinino del caffé, il ferro da stiro a carbone, la stufetta dal lungo tubo, la trionfale e panciuta cassa del negozio a tasti, la macchina per cucire a mano.

C’è sempre un po’ di vergogna nel ricordo e la richiesta degli inutili oggetti che finiranno inevitabilmente dispersi in qualche cassetto: ha il tono di una segreta complicità con il venditore, se è della nostra età, o il distacco falso (“sono per i bambini”), se è un giovane.

Il passato, in verità, non si cancella. Torna sempre più imperioso quando le prospettive del futuro diradano o quando fulmineamente si associano la leggerezza, la felicità dell’infanzia, lo stato di grazia dell’adolescenza alla pesantezza di un’esistenza che offre sempre meno gioie e sempre più frequenti amarezze.

Nostalgia si chiama questo sentimento. E non è il contrario della speranza. Ne è anzi il completamento.

Tra nostalgia e speranza qualche volta si rompe l’equilibrio ed allora il filo dei ricordi, dei sentimenti, delle intuizioni si sgrana veloce verso il passato.

Si cancella il futuro e si ricorda.

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Le foto sotto sono state prese dalla "Raccolta di stampe Achille Bertarelli" in mostra al Castello Sforzesco di Milano e offrono una immagine della Lombardia ottocentesca. Esse fermano la vita, la incasellano disegnando rapidamente il volto di una città (Milano) e di un popolo (il popolo Lombardo).

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FOTO      (clic sulle miniature)

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